Carcere e sovraffollamento - ZIP Rivista Letteraria per i Giovani

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Carcere e sovraffollamento


Il mondo del carcere da un punto di vista insolito: quello del detenuto

Cosa c'è dietro le sbarre?
Pene, punizioni, caffè e sovraffolamento

di Primavera


Avremmo potuto dedicare la nostra pagina alla consueta descrizione della giornata tipo di un detenuto o  magari snocciolare cifre sulla situazione carceraria italiana. Tuttavia vogliamo ancora una volta offrire ai lettori di Zip qualcosa di più di qualche pagina di informazione: un’occasione di riflessione,  magari anche personale. Perciò abbiamo pensato di riproporre alla vostra attenzione un programma che qualche tempo fa la Rai ha messo in onda ma che - come accade spesso per i programmi che affrontano tematiche più impegnative di quiz o reality show - le superiori ragioni dell’audience hanno relegato in seconda serata.
Si tratta di “Sbarre” (questo il link http://www.rai.it/dl/portali/site/articolo/ContentItem-aab61c67-c7ee-48ad-9b82-6894439663bd.html in cui troverete tutte le puntate), un documentario realizzato nel carcere romano di Rebibbia, che accompagna per mano il visitatore esterno nella vita quotidiana di un detenuto all’interno del carcere. Non si tratta della solita carrellata di immagini relative alla vita fra le mura di un istituto penitenziario: le celle, il refettorio, l’ora d’aria in cortile, insomma la giornata rigidamente  scandita di un gruppo indeterminato di detenuti. Gli autori  del programma hanno messo a fuoco il punto di contatto tra il mondo esterno e la realtà carceraria: in ogni puntata il visitatore esterno che varca le porte  dell’istituto non è un giornalista o un conduttore televisivo, ma è qualcuno che è “in bilico” a ridosso di quelle porte, e per di più un giovane. A calarsi nella realtà carceraria è infatti, di puntata in puntata, un ragazzo che in quella realtà rischia ogni giorno di finirci davverp, per problemi di droga, spaccio, furto o altri reati minori.
Nasce allora un confronto più autentico con il detenuto: egli sa di avere di fronte qualcuno che non lo giudica sprezzantemente, magari proprio perché quella stessa cattiva strada l’ha già imboccata anche lui; raccontando la propria esperienza, il detenuto consente al suo speciale visitatore di avere una reale percezione di cosa significhi vivere il carcere, scontare quella pena troppo spesso poco temuta dal piccolo delinquente giovane e temerario.

Nulla a che vedere insomma con l’indimenticabile dialogo tra Don Raffaè ed il brigadiere Cafiero, così vivamente sviluppato da Fabrizio De Andrè nella celebre canzone “Don Raffaè” da sembrare riportato dai racconti di qualche detenuto. Il cantautore traccia uno spaccato della situazione nei penitenziari italiani, intrecciando strettamente la descrizione della realtà carceraria con una tematica non meno impegnativa, la criminalità organizzata.

“Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son brigadiere del carcere oinè
io mi chiamo Cafiero Pasquale
sto a Poggio Reale dal '53
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio […]

Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte l'ore cò 'sta fetenzia
che sputa minaccia e s'à piglia cò me.”

Lo sfogo del brigadiere lascia ben intuire quello che purtroppo è il comune destino di vita reclusa  tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. E forse il numero di suicidi riscontrabile tra i poliziotti operativi tra le mura delle carceri, parallelamente alle vite sacrificate dagli stessi detenuti, è la spia più evidente di un disagio esistenziale in parte condiviso.
Ma il momento di “pausa caffè” tra il brigadiere e Don Raffaè è soprattutto nell’intento del cantautore occasione di denuncia di un autentico capovolgimento dei ruoli. Ci vuol poco ad intuire che “l’uomo geniale, illustrissimo ed immenso che sta al braccio speciale” altro non è che un esponente di spicco della criminalità organizzata. Ed ecco il brigadiere Cafiero rendersi disponibile per i più disparati servigi al suo speciale ospite - compresa la preparazione del caffè co' à ricetta ch'à Ciccirinella  ci ha dato mammà – in cambio di ben più di quattro chiacchiere con Don Raffaè: la sistemazione matrimoniale della figlia Innocenza e il posto di lavoro per il fratello.
Se De Andrè ha scritto un testo di contestazione così colorito per denunciare la capacità di penetrazione del potere delle organizzazioni malavitose in quello che dovrebbe essere il braccio più forte dello Stato nella lotta alla criminalità, fortunatamente la vivace descrizione non trova piena corrispondenza nella realtà carceraria attuale. Piuttosto altre sono le piaghe del sistema penitenziario italiano…

Scrivere della situazione nelle carceri italiane è un compito doppiamente difficile: allo sforzo di raccontare il disagio comune vissuto da chi versa nella condizione di detenuto, si somma infatti l’imprescindibile analisi del problema ormai endemico che affligge il sistema carcerario italiano: il sovraffollamento. Si tratta, è evidente, di un fenomeno che incide pesantemente non solo sulle concrete e quotidiane condizioni di vita dei detenuti e degli stessi agenti di polizia penitenziaria, ma soprattutto sulla finalità ultima del sistema penitenziario, che la Costituzione individua nella rieducazione del condannato, ovvero nel perseguimento del reinserimento sociale dello stesso, affinché una volta riconquistata la libertà, non commetta nuovi reati.  Che il sovraffollamento sia una variabile negativa del buon funzionamento dell’organizzazione carceraria risulta evidente intanto dalla considerazione della crescente inadeguatezza delle strutture e del personale che consegue ad un inarrestabile aumento dei detenuti. Situazioni di vera e propria emergenza carceraria si registrano negli istituti in cui il rapporto tra effettiva presenza di detenuti e capienza prevista è addirittura pari al doppio.
Pensare che la soluzione possa passare solo dal superamento dell’insufficienza delle strutture, è purtroppo illusorio: la costruzione di nuovi istituti penitenziari o anche solo l’ampliamento di quelli esistenti, porta con sé la necessità di un’implementazione del personale penitenziario e più in generale delle risorse da destinare al funzionamento e alla manutenzione delle strutture. Oneri finanziari che sempre più difficilmente sembra possano essere sopportati dallo Stato. La carenza di fondi spiega anche perché carceri già disponibili ad ospitare detenuti, restano vuote ed in stato di abbandono, meritandosi l’appellativo di vere e proprie “carceri fantasma”. Non mancano vie alternative per superare il problema del sovraffollamento delle carceri: l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e, per i reati di minore gravità, delle cosiddette  sanzioni sostitutive.
L’elevato numero di reclusi impedisce, infatti, la piena operatività dei meccanismi che nel tempo la legge  ha introdotto per dare attuazione concreta all’idea di pena espressa dalla Costituzione, ossia  strumento di reinserimento sociale del condannato e non punizione per il reato commesso. In quest’ottica vanno lette le scelte del legislatore che hanno fatto del lavoro dei detenuti, il primo momento di un percorso di risocializzazione, destinato a mantenere una sorta di continuità con “il mondo esterno” al carcere attraverso un contributo lavorativo del detenuto.
Non occorre qui elencare le esperienze positive cui danno vita numerose imprese ed associazioni: l’obiettivo che le accomuna è offrire la possibilità ai detenuti di fare veri e propri “lavori che vadano oltre il soddisfacimento delle necessità pratiche dentro il carcere, cui già i detenuti dovrebbero attendere (portavitto, addetto alle pulizie, manutentore, etc.). Si pensi alla valorizzazione della manodopera carceraria attraverso l’impiego nella realizzazione di prodotti industriali, fino ad arrivare al coinvolgimento dei detenuti nella gestione di call center e servizi analoghi.
L’incidenza positiva che il lavoro durante il periodo di detenzione ha sul reinserimento sociale del condannato sta nei numeri: secondo dati diffusi dal ministero della giustizia, una percentuale ridotta dei detenuti che durante l’esecuzione della pena hanno lavorato, torna a commettere nuovi reati. In altri termini, la recidiva è strettamente legata alla possibilità che durante la reclusione sia stata offerta al soggetto di non restare totalmente inattivo.
Se la gran parte dei detenuti che fa questo tipo di esperienza, una volta riconquistata la libertà, è destinata a non rimettere piede nelle carceri, se ne ricava un  risparmio significativo per le casse pubbliche. Senza contare che la funzione di rieducazione e reinserimento sociale della pena smette di essere pura utopia!


 
 
 
 
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