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Fatti non foste a viver come bruti...
Alcune riflessioni sulla conoscenza umana e sulle sue implicazioni
di Laura Micale
ai ragazzi della 5 C
E’ un’attitudine propria dell’uomo, un’inclinazione che ci appartiene sin da quando bambini iniziamo a chiedere il perché di ogni cosa anche di quelle più insignificanti e banali, ricercare insistentemente la ragione di ciò che ci circonda. E’ una voglia inappagabile, un’attrazione per l’ignoto che, come si legge nei celebri versi danteschi (Inferno, XXVI, 119-
Il problema della conoscenza umana è stato nel tempo ampiamente dibattuto. Seneca nelle “Naturales quaestiones” VI, 3, 2 si rivolge al lettore dicendo: “Siccome il non sapere è causa del temere, non è meglio sapere per non temere?”. Nel passo si discute su alcuni fenomeni naturali, sottolineando come i più frequenti non destano alcun timore, mentre i più rari suscitano paura perché non ne conosciamo le cause e non siamo in grado di prevederne le conseguenze.
Per non avere paura, per essere delle persone più forti e consapevoli, per essere padroni della nostra esistenza, non dobbiamo rassegnarci a restare nell’ignoranza ma ricercare le cause e le conseguenze delle cose, andare oltre le apparenze. Sembra strano ma Fedez, un rapper milanese, nelle sue canzoni dice proprio qualcosa di simile. Per non essere presi in giro, per essere in grado di decidere per noi stessi, perché un domani nessuno possa sbatterci le porte in faccia è necessario studiare, ricercare e conoscere.
Seneca nutriva un’incondizionata fiducia nel progresso: il sapere porta all’elevazione dell’uomo. Lo studio della natura è, secondo l’autore latino, il banco di prova per lo sviluppo della conoscenza umana e per la liberazione da paure ingiustificate: l’osservazione diretta dei fenomeni naturali conduce alla scoperta di una madre benigna, libera gli uomini dai timori che nascono dall’ignoranza dei fenomeni naturali e insegna il retto uso dei beni messi a disposizione dalla natura stessa. Esalta, dunque, la ricerca scientifica, considerata come il mezzo con cui l’uomo può innalzarsi e, al contempo, condanna la stragrande maggioranza degli uomini che trascura lo studio della natura per darsi a occupazioni moralmente inutili o nocive.
Questa fiducia nelle potenzialità conoscitive dell’uomo, che nell’Ottocento sarà rilanciata dal Positivismo, è diametralmente opposta all’amara visione di Leopardi per il quale l’approdo ultimo della conoscenza è la scoperta del volto spietato della Natura Matrigna. Nel “Dialogo della Natura e di un Islandese” la Natura, personificata in un’enorme donna dai capelli nerissimi e dal “volto tra il bello e terribile”, viene presentata come un’entità personale che persegue volutamente il male come elemento essenziale dell’ordine di natura, che sacrifica la felicità del singolo per la meccanica perpetuazione della specie. Non sorprende, dunque, che le illusioni siano considerate un inganno “buono” mentre il progredire della conoscenza e della ragione causa di una maggiore infelicità: “O natura, o natura, / perché non rendi poi/ quel che prometti allor?/Perché di tanto/ inganni i figli tuoi?” (A Silvia). Si tratta di un inganno che risponde a un’esigenza morale nei confronti di quei mali che risultano immedicabili. Lo sarà finché la filosofia dolorosa diventerà “operante” nella “Ginestra”, opera ultima in cui Leopardi intravede nella fratellanza universale il mezzo per attenuare la ferrea contrapposizione fra il misero individuo e la natura onnipotente.
Oggi, grazie alla tecnologia, l’uomo sembra essere riuscito ad imporre il suo dominio sulla natura, a piegare le forze più impetuose al suo uso e consumo. Grazie al progresso scientifico, molti “segreti” della terra e del cosmo sono stati svelati, spiegati, dissolti. Eppure permangono ancora numerosi interrogativi e delle barriere che né la tecnologia né la conoscenza umana sono riusciti ad abbattere. Esistono ancora delle Colonne d’Ercole oltre le quali la conoscenza di realtà troppo vaste per l’intelletto umano sembra portare allo stesso smarrimento e alla perdizione dell’Ulisse dantesco. Permangono dei mali immedicabili di fronte ai quali l’ignoranza può ancora apparire “beata”.
Anche noi, che sembriamo tanto “scientifici” e razionali, possiamo lasciarci canzonare da teorie mal interpretate sulla fine del mondo, lasciando che si speculi su una teoria di milioni di anni fa in barba alla scienza e al progresso. Questo accade perché continuiamo ad avere paura della morte ossia dell’ignoto, perché su di essa non siamo in grado di indagare.
Secondo Eco, lo scopo dell’uomo è dare una descrizione accurata della realtà e in questo sforzo si cela anche l’ambizione di esplorare tutto lo scibile umano, di raccontare il cielo e le stelle. Con un obiettivo ben più grande e cioè sconfiggere la morte che ci limita impedendoci di esplorare tutto l’infinito.
Ma la conoscenza è sempre un bene e porta sempre al Bene?
Non lo è se può portarci a sconfessare noi stessi, ad esempio quando nasce per affermare il Sé nel rapporto con tutto ciò che ci circonda. Basti pensare all’invenzione della bomba atomica, frutto di studio e dell’intelligenza umana che ha portato però a un disastro inimmaginabile…
Venire a conoscenza di avere una malattia mortale per la quale non esiste cura inevitabilmente ci porta verso il baratro del dolore e della paura dell’ignoto: anche in questo caso sapere significa non temere? Può sembrare strano, ma io sceglierei sempre di conoscere piuttosto che di ignorare.
Solo la conoscenza, che non deve essere confusa con la mancanza di buon senso, ci consente di rialzarci in piedi, fieri e orgogliosi di quello che siamo, seppur convinti, alla maniera di Socrate, che il saggio è colui che sa di non sapere. Questa consapevolezza deve essere lo stimolo per continuare a migliorarsi e per affrontare la vita con una marcia in più, cercando costantemente di abbattere le distanze e gli ostacoli che si frappongono ad un ulteriore ampliamento dei nostri orizzonti conoscitivi.