Il racconto di Sciascia - ZIP Rivista Letteraria per i Giovani

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Il racconto di Sciascia

Modica in gara


Western di cose nostre di Leonardo Sciascia


Un grosso paese, quasi una città, al confine tra le province di Palermo e Trapani Negli anni della prima guerra mondiale. E come se questa non bastasse, il paese ne ha una interna: non meno sanguinosa, con una frequenza di morti ammazzati pari a quella dei cittadini che cadono sul fronte. Due cosche di mafia sono in faida da lungo tempo. Una media di due morti al mese. E ogni volta, tutto il paese sa da quale parte è venuta la lupara e a chi toccherà la lupara di risposta. E lo sanno anche i carabinieri. Quasi un giuoco, e con le regole di un giuoco. I giovani mafiosi che vogliono salire, i vecchi che difendono le loro posizioni. Un gregario cade da una parte, un gregario cade dall’altra. I capi stanno sicuri: aspettano di venire a patti. Se mai, uno dei due, il capo dei vecchi o il capo dei giovani, cadrà dopo il patto, dopo la pacificazione: nel succhio dell’amicizia.
Ma ecco che ad un punto la faida si accelera, sale per i rami della gerarchia. Di solito, l’accelerazione. ed ascesa della faida manifesta, da parte di chi la promuove, una volontà di pace: ed è il momento in cui, dai paesi vicini, si muovono i patriarchi a intervistare le due parti, a riunirle, a convincere i giovani che non possono aver tutto e i vecchi che tutto non possono tenere. L’armistizio, il trattato. E poi, ad unificazione avvenuta, e col tacito e totale assenso degli unificati, l’eliminazione di uno dei due capi: emigrazione o giubilazione o morte. Ma stavolta non è così. I patriarchi arrivano, i delegati delle due cosche si incontrano: ma intanto, contro ogni consuetudine e aspettativa, il ritmo delle esecuzioni continua; più concitato, anzi, e implacabile. Le due parti si accusano, di fronte ai patriarchi, reciprocamente di slealtà. il paese non capisce più niente, di quel che sta succedendo. E anche i carabinieri. Per fortuna i patriarchi sono di mente fredda, di sereno giudizio. Riuniscono ancora una volta le due delegazioni, fanno un elenco delle vittime degli ultimi sei mesi e «questo l’abbiamo ammazzato noi», «questo noi», «questo noi no» e «noi nemmeno», arri-vano alla sconcertante conclusione che i due terzi sono stati fatti fuori da mano estranea all’una e all’altra cosca. C’è dunque una terza cosca segreta, invi¬sibile, dedita allo sterminio di entrambe le cosche quasi ufficialmente esistenti? O c’è un vendicatore isolato, un lupo solitario, un pazzo che si dedica allo sport di ammazzare mafiosi dell’una e dell’altra parte? Lo smarrimento è grande. Anche tra i carabinieri: i quali, pur raccogliendo i caduti con una certa soddisfazione (inchiodati dalla lupara quei delinquenti che mai avrebbero potuto inchiodare con prove), a quel punto, con tutto il da fare che avevano coi disertori, aspettavano e desideravano che la faida cittadina si spegnesse.
I patriarchi, impostato il problema nei giusti termini, ne fecero consegna alle due cosche perché se la sbrigassero a risolverlo: e se la svignarono, poiché ormai nessuna delle due parti, né tutte e due assieme, erano in grado di garantire la loro immunità. I mafiosi del paese si diedero a indagare; ma la paura, il sentirsi oggetto di una imperscrutabile vendetta o di un micidiale capriccio, il trovarsi improvvisamente nella condizione in cui le persone oneste si erano sempre trovate di fronte a loro, li confondeva e intorpidiva. Non trovarono di meglio che sollecitare i loro uomini politici a sollecitare i carabinieri a un’indagine seria, rigorosa, efficiente: pur nutrendo il dubbio che appunto i carabinieri, non riuscendo ad estirparli con la legge, si fossero dati a quella caccia più tenebrosa e sicura. Se il governo, ad evitare la sovrappopolazione, ogni tanto faceva spargere il colera, perché non pensare che i carabinieri si dedicassero ad una segreta eliminazione dei mafiosi?
Il tiro a bersaglio dell’ignoto, o degli ignoti, continua. Cade anche il capo dela vecchia cosca. Nel paese è un senso di liberazione e insieme di sgomento. I carabinieri non sanno dove battere la testa. I mafiosi sono atterriti. Ma subito dopo il solenne funerale del capo, cui fingendo compianto il paese intero aveva partecipato, i mafiosi perdono quell’aria di smarrimento, di paura. Si capisce che ormai sanno da chi vengono i colpi e che i giorni di costui sono contati. Un capo è un capo anche nella morte: non si sa come, il vecchio morendo era riuscito a trasmettere un segno, un indizio; e i suoi amici sono arrivati a scoprire l’identità dell’assassino. Si tratta di una persona insospettabile: un professionista serio, stimato; di carattere un po’ cupo, di vita solitaria; ma nessuno nel paese, al di fuori dei mafiosi che armai sapevano, l’avrebbe mai creduto capace di quella caccia lunga, spietata e precisa che fino a quel momento aveva consegnato alle necroscopie tante di quelle persone che i carabinieri non riuscivano a tenere in arresto per più di qualche ora. E i mafiosi si erano anche ricordati della ragione per cui, dopo tanti anni, l’odio di quell’uomo contro di loro era esploso freddamente, con lucido calcolo e sicura esecuzione. C’entrava, manco a dirlo, la donna.
Fin da quando era studente, aveva amoreggiato con una ragazza di una fa¬miglia incertamente nobile ma certamente ricca. Laureato, nella fermezza dell’amore che li legava, aveva fatto dei passi presso i familiari di lei per arrivare al matrimonio. Era stato respinto: ché era povero, e non sicuro, nella povertà da cui partiva, il suo avvenire professionale. Ma la corrispondenza con la ragazza continuò; più intenso si fece il sentimento di entrambi di fronte alle difficoltà da superare. E allora i nobili e ricchi parenti della ragazza fecero appello alla mafia. Il capo, il vecchio e temibile capo, chiamò il giovane professionista: con proverbi ed esempi tentò di convincerlo a lasciar perdere; non riuscendo con questi, passò a minacce dirette. Il giovane non se ne curò; ma terribile impressione fecero alla ragazza. La quale, dal timore che la nefasta minaccia si realizzasse forse ad un certo punto passò alla pratica valutazione che quell’amore era in ogni caso impossibile: e convolò a nozze con uno del suo ceto. Il giovane si incupì, ma non diede segni di disperazione o di rabbia. Cominciò, evidentemente, a preparare la sua vendetta.


Il finale secondo Sciascia
Ora dunque i mafiosi l’avevano scoperto. Ed era condannato. Si assunse l’esecuzione della condanna il figlio del vecchio capo: ne aveva il diritto per il lutto recente e per il grado del defunto padre. Furono studiate accuratamente le abitudini del condannato, la topografia della zona in cui abitava e quella della sua casa. Non si tenne però conto del fatto che ormai tutto il paese aveva capito che i mafiosi sapevano: erano tornati all’abituale tracotanza, visibilmente non temevano più l’ignoto pericolo. E l’aveva capito prima d’ogni altro il condannato.
Di notte, il giovane vendicatore uscì di casa col viatico delle ultime raccomandazioni materne. La casa del professionista non era lantana. Si mise in agguato aspettando che rincasasse; o tentò di entrare nella casa per sorprenderlo nel sonno; o bussò e lo chiamò aspettandosi che comparisse a una data fine¬stra, a un dato balcone. Fatto sta che colui che doveva essere la sua vittima, lo prevenne, lo aggirò. La vedova del capo, la madre del giovane delegato alla vendetta, sentì uno sparo: credette la vendetta consumata, aspettò il ritorno del figlio con un’ansia che dolorosamente cresceva ad ogni minuto che passava. Ad un certo punto ebbe l’atroce rivelazione di quel che era effettivamente accaduto. Uscì di casa: e trovò il figlio morto davanti alla casa dell’uomo che quella notte, nei piani e nei voti, avrebbe dovuto essere ucciso. Si caricò del ragazzo morto, lo portò a casa: lo dispose sul letto e poi, l’indomani, disse che su quel letto era morto, per la ferita che chi sa dove e da chi aveva avuto. Non una parola, ai carabinieri, su chi poteva averlo ucciso. Ma gli amici capirono, seppero, più ponderatamente prepararono la vendetta.
Sul finire di un giorno d’estate, nell’ora che tutti stavano in piazza a prendere il primo fresco della sera, seduti davanti ai circoli, ai caffè, ai negozi (e c’era anche, davanti a una farmacia, l’uomo che una prima volta era riuscito ad eludere la condanna), un tale si diede ad avviare il motore di un’automobile. Girava la manovella: e il motore rispondeva con violenti raschi di ferraglia e un crepitio di colpi che somigliava a quello di una mitragliatrice. Quando il frastuono si spense, davanti alla farmacia, abbandonato sulla sedia, c’era, spaccato il cuore da un colpo di moschetto, il cadavere dell’uomo che era riuscito a seminare morte e paura nei ranghi di una delle più agguerrite mafie della Sicilia.



 
 
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